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Il valore recondito della musica, secondo un musicista


Spesso amici, familiari o semplici conoscenti mi domandano perché io suoni unicamente brani “di musica classica”. Forse, frequentando il Conservatorio, sono obbligato a studiarli? La mia risposta, invariabilmente, è:-No, io HO SCELTO di suonare le composizioni dei vari Mozart, Beethoven…-. Tanti miei coetanei, anche del Conservatorio, invece direbbero esattamente il contrario. Infatti, che senso ha ascoltare e suonare opere di due, tre secoli fa? Opere perlopiù lunghe, noiose e ancorate a vecchi stili musicali. Non è forse meglio ballare, sognare e rilassarsi sulle note delle canzoni e dei brani attuali? Ora, senza nulla togliere (tutt’altro!) al rock, al pop, e a tutti i generi musicali odierni, bisognerebbe rivalutare la validità (ma soprattutto l’ascoltabilità) dei brani “classici”. Perché, dopo millenni, cerchiamo di capire Socrate? Perché, dopo duecento anni, apprezziamo le poesie di Baudelaire? Perché hanno qualcosa da dire. Uno attraverso la filosofia, l’altro tramite la scrittura, entrambi sono riusciti a rendere eterni le loro opere, e ad arricchire la nostra visione del mondo. Lo stesso vale per la musica: essa incarna la sintesi perfetta fra la matematica e il sentimento. Sembra quasi un controsenso, ma non esiste cosa più astratta ma al tempo stesso più concreta della musica. È la forma d’arte più pura ed elementare, capace di colpire nell’intimo più profondo l’essere umano. Secondo Nietzsche, essa è l’espressione del dionisiaco, ovvero dell’illogico, dell’irrazionalità, della verità, da opporsi all’apollineo, che rappresenta la realtà secondo dei canoni e dei simboli assai concreti. Si potrebbe quindi sostenere che la musica è un’espressione umana che va oltre l’umano, essendo manifestazione di una perfezione ambita, cercata, ammirata dall’uomo, ma non raggiunta (perlomeno, non in tutte le sue sfumature). E a questo punto si ritorna alla filosofia, stavolta pitagorica, che vedeva la musica suonata (ovvero non teorica) come un pallido riflesso dell’universo. Ora, coloro i quali sono riusciti ad elevare a tale livello filosofico-intellettuale la musica, altri non sono che i compositori settecenteschi ed ottocenteschi. Infatti, come poter rimanere impassibili di fronte all’astrazione perfetta, alla concordanza logica di innumerevoli melodie, voci musicali, che come un turbine solcano i brani di J.S. Bach? Come non provare compassione ascoltando Chopin, che nella celebre Ballata n. 1 ha voluto esprimere il dolore per la lontananza dalla famiglia e dalla sua patria, la Polonia, ma anche la speranza di rivederla? Beethoven, nella Sonata op. 23 “Appassionata”, forse dopo una delusione d’amore, esplicita il confronto, o per meglio dire lo scontro, fra il desiderio umano del raggiungimento della felicità (rappresentato in modo ideologico ed estatico in un movimento della composizione) e la immancabile rinuncia alla stessa, e di conseguenza la sofferenza rabbiosa e rassegnata del proprio inevitabile destino infelice. Lascia forse indifferenti una situazione del genere, nella quale molti uomini, purtroppo, si ritrovano? A questo punto si potrebbe obbiettare che la forma attraverso la quale si esprimono questi sentimenti sia antiquata e noiosa: questi brani, come tutte le cose, necessitano di comprensione, per poi essere apprezzati. E la forma, davanti alla bellezza, è poca cosa: no?


Riccardo Rosas
ultimo aggiornamento alle ore 16:54 dell'8/09/2018
Rubrica curata da A. Cozzolino

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